G.C.C. Pokemon: L'inizio
Immaginate di tornare indietro nel tempo, prima del liceo; raffiguratevi in quel periodo in cui il dubbio più importante non era quale Università scegliere o quando prendere la patente, bensì chi dovesse impersonare il Power Ranger rosso, chi Bloom, oppure chi sarebbe diventato il ninja verde in Ninjago. Ecco, torniamo alle elementari. Grembiulino azzurro, lo zaino del tuo personaggio dei cartoni preferito, in tasca il giocattolo che la maestra il giorno prima ti aveva categoricamente proibito di portare in classe. E via in macchina per arrivare a scuola, dove avremmo affrontato battaglie e melodrammi degni della miglior telenovela sudamericana. Le possibilità erano infinite: Giocare a calcio, leggere o inventarsi scenari impossibili. Tuttavia c’era un momento che radunava la pletora di marmocchi urlanti in un unico luogo: bastava una sola frase, pronunciata da un solo bambino, per far sì che tutti si riunissero davanti al compagno che aveva appena affermato con fierezza: “Ho portato le carte Pokémon!”. È solo uno dei tanti esempi che ci ricordano come Pokémon e molti altri giochi di carte collezionabili abbiano accompagnato la nostra infanzia, e non solo quella. Ma perché era così importante all’epoca una semplice figurina? Perché lo è tuttora per migliaia di collezionisti? E, soprattutto, perché questa innocua passione rischia di privare della “magia” del collezionismo tutti i bambini di oggi? Andiamo con ordine, spiegando anzitutto da dove nasce il fenomeno delle figurine o, in generale, delle carte da collezione. Un primo esempio di carte collezionabili, o almeno il più antico, possiamo collocarlo temporalmente addirittura nel XVII secolo alla corte del Re Sole, Luigi XIV, il quale possedeva una grande quantità di carte raffiguranti personaggi importanti e nobili dell’epoca. Andando avanti di un paio di secoli, arriviamo alla prima distribuzione di massa nei grandi magazzini: in particolare l’Au Bon Marché a Parigi, che nel 1867 inaugurò un’astuta iniziativa pubblicitaria basata sul regalare ogni giovedì una carta stampata, raffigurante ad esempio animali, cattedrali o capitali. Facciamo un altro salto temporale ed arriviamo al 1961, più precisamente in Italia, dove i giovani fratelli Panini acquistarono ad un ottimo prezzo un’enorme quantità di figurine raffiguranti i calciatori di quel tempo. A quel punto, insieme a tutta la famiglia, iniziarono ad “imbustare” a blocchi di quattro le figurine in pacchetti che iniziarono a vendere nella loro edicola. Questa mossa riscosse un tale successo da spingerli a creare una loro specifica collezione, sancendo così la nascita ufficiale delle figurine dei calciatori Panini. Contestuale fu la vendita di un album sulle cui pagine andavano attaccate le icone dei calciatori, adesive nella parte posteriore, e contrassegnate da un numero che serviva per orientarsi sul punto in cui posizionarle nella raccolta. Con questa idea s’inaugura una pratica che rivoluzionerà tutte le carte collezionabili da quel momento in poi, ovvero lo scambio. Comprando pacchetti a iosa era infatti frequente trovare dei doppioni, i quali potevano diventare un mezzo per ottenere delle carte che invece non si avevano, scambiandole con i compagni a scuola. Per anni le figurine dei calciatori Panini non ebbero rivali; di conseguenza migliaia di genitori sapevano che, se per caso fossero passati con i propri figli dinanzi a un’edicola, avrebbero dovuto combattere per riuscire a mantenere intatte le proprie finanze. Di lì a poco, tuttavia, i bambini di ogni parte del mondo sarebbero ancora una volta entrati in contatto con qualcosa di nuovo, qualcosa di mostruoso… ma tascabile. Siamo in Giappone nel 1996 ed è stato da poco rilasciato in ogni angolo del globo il passatempo preferito da tutti i ragazzi di allora: il Game Boy. Una console portatile nella quale potevano essere inserite diverse cartucce, ognuna fornite un gioco corrispondente. Mentre i bambini del Sol Levante giocavano a Tetris e Super Mario, Satoshi Tajiri, un giovane imprenditore cresciuto con l’hobby di catturare e collezionare insetti, creò un’opportunità di collaborazione tra la sua azienda la Game Freak ed il colosso videoludico Nintendo. Il connubio tra le grandi disponibilità economiche di quest’ultime e l’inarrestabile fantasia di Tajiri generò “Pocket Monsters” (abbreviato poi in “Pokémon”), un gioco ambientato in un mondo in cui, sparsi per tutta la mappa, c’erano ben 151 creature dalle forme più disparate. Quanto al giocatore, il suo obiettivo veniva reso chiaro sin dai sottotitoli con la frase “Acchiappali tutti”. La missione imposta dal gioco era infatti proprio questa: catturarli, per poi allenarli e quindi combattere contro altri allenatori ed i cosiddetti “capi palestra”, con l’obiettivo di diventare “campione”. Tornando alle figurine, vennero create delle carte raffiguranti i mostriciattoli con il proposito di creare, come nel coevo card game “Magic the Gathering” (1993), un vero e proprio gioco di strategia. Il primo blocco, uscito per l’appunto nel 1996 e conosciuto come Set Base, conteneva ben 106 differenti carte tra i Pokémon, alcuni dei principali capi palestra, strumenti vari e soprattutto le energie, fondamentali per giocare. Fu necessario attendere il 1998 perché la prima collezione uscisse fuori dal Giappone. In particolar modo il videogioco Pokémon ebbe un successo globale: i bambini non volevano più diventare Pelé e Maradona ma piuttosto campioni di Kanto o “massimi strateghi”, il tutto attraverso animali fantastici dalle straordinarie abilità. Di espansioni continuano a uscirne periodicamente anche oggi, più o meno ogni 3 mesi, per far fronte alla richiesta sempre maggiore del prodotto. Quanto ai Pokémon, dagli iniziali 151 sono arrivati complessivamente a più di 1.000, tra le ormai 9 regioni in cui sono ambientati i vari giochi. Passiamo ora a qualche dettaglio tecnico, spiegando dapprima il successo del brand e come sia divenuto economicamente imbattibile. Nella creazione dei prodotti per bambini vengono sempre tenuti in considerazione gli orientamenti d’insieme che essi esprimono mediamente con le loro scelte nei punti vendita, e che possono cambiare senza preavviso. La richiesta più frequente espressa dalla maggior parte dei bambini era quella di avere un animale domestico; il buon Satoshi questo lo sapeva, e allo stesso tempo era preoccupato che un tipo d’infanzia come quella da lui stesso vissuta spensieratamente all’aria aperta tra alberi e cespugli, con retini e animaletti da catturare per gioco, col tempo sarebbe divenuta sempre più rari. Con i “Pocket Monsters” ogni bambino poteva riscoprire digitalmente questo tipo di vita, e al tempo stesso possedere – sempre nella simulazione elettronica – così tanti animali domestici da fare invidia allo zoo di San Diego. Economicamente parlando, invece, oggi la “The Pokémon Company” vanta la nomea di impero videogiochista con più vendite al mondo, tra gadget, videogiochi ed eventi a tema. In particolar modo il settore delle carte è ormai diventato un terreno prediletto di investimenti, non solo per i venditori ma anche per i compratori. Ed è proprio qui che vorrei incentrare la critica mossa dal mio articolo. Il fattore che con il tempo sta venendo meno tra le figurine Pokémon, ma anche in molti marchi ludici di successo come Yu-Gi-Oh, Magic o Vanguard, è il concetto del “giocare”. Torniamo, per esempio, al precedentemente citato “Set Base”, ovvero la prima collezione rilasciata al pubblico, divenuta ormai costosa come l’oro; parliamo di qualcosa che oramai è accessibile veramente a pochi, mentre fino a una ventina di anni fa chiunque poteva permettersela. Perché questa impennata nel prezzo? Per una sola carta che si potrebbe trovare al suo interno: il Charizard prima edizione. Una sola carta che, se nelle giuste condizioni, può arrivare a superare di gran lunga il prezzo dell’intero set. Ogni gioco di carte ha il suo “Santo Graal”: in Yu-Gi-Oh troviamo il “Drago Bianco Occhi Blu”, direttamente dal primo set chiamato “La Leggenda del Drago Bianco Occhi Blu”, oppure il “Black Lotus” di Magic che ad oggi sfiora i 100.000 euro. Oggi nei set odierni troviamo carte che sfiorano le migliaia di euro, e che possiamo trovare tutti i giorni in semplici pacchetti comprati in edicola o in qualsiasi negozio di giocattoli. Significativo è poi l’avvento della “gradazione”, ovvero la valutazione con voto e successiva protezione ermetica delle singole carte, offerta da un numero crescente di aziende: da quelle internazionali come PSA a quelle italiane come “AI GRADING”. Un servizio sempre più gettonato, poiché una figurina “gradata” con un buon voto vede incrementare notevolmente il suo valore e la possibilità di vendita. Tuttavia proprio questi sempre più selettivi criteri di collezionismo stanno distogliendo lo sguardo da cosa effettivamente siano le figurine: dei giocattoli. A causa della crescente distribuzione mediatica tramite i vari social dei cosiddetti “spacchettamenti”, in cui streamer e youtuber mostrano le loro collezioni e il relativo valore, numerosi bambini non comprano più né tantomeno collezionano figurine per il gusto del giocare e dello scambiare, bensì come investimento. È ormai sempre più facile osservare bambini di non più di 12 anni andare per negozi con bilancino da spacciatore alla mano e fodere protettive in tasca, alla ricerca dei pacchetti più pesanti dove trovare le carte più costose. Qualora la caccia innescata da questa singolare forma di “ludopatia in miniatura” abbia dato suoi frutti, la carta dall’elevato prezzo verrà immediatamente messa dapprima dentro una protezione morbida, quindi in una custodia rigida, per evitare ogni possibile danneggiamento e raggiungere una gradazione da 10 così da costare 100 euro invece che 50. Addio ai mazzi di carte usati come frisbee, mescolati senza guanti e legati con elastici da cucina! Senza dubbio quelle carte consunte con cui abbiamo giocato allora varranno molto di meno, tuttavia possiamo dire di aver vissuto una passione innocente, distaccata dal puro e semplice lucro.
E voi cosa ne pensate? È giusto avvicinarsi così presto ai concetti di guadagno e di interesse, così da comprendere prima il valore dei soldi? O non è meglio magari attendere, lasciando il gioco fuori dal business per vivere un’infanzia colorata, ignara e felice?
Di Manfredi Monti VE